Genitore 1 batte Padre e Madre 3 a 0: cronaca di una disfatta semantica
Ci siamo. È ufficiale. Dopo secoli di onorata carriera, “padre” e “madre” sono stati licenziati senza preavviso dalla carta d’identità elettronica. Troppo ingombranti, troppo biologici, troppo... veri. Al loro posto, la dizione magica, inclusiva, inodore e insapore: “genitore”. Più fluida dell’acqua distillata, più neutra della Svizzera, più vaga di una promessa elettorale.
La decisione arriva nientemeno che dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 9216 ha archiviato il sogno nostalgico di Matteo Salvini, il quale – in un impeto di restaurazione lessicale degno del Congresso di Vienna – aveva riportato nel 2019 “padre” e “madre” nei documenti. Ricordate? Era l’epoca in cui si combattevano le élite globaliste con i moduli dell’anagrafe e i crocifissi negli asili. Tempi epici.
Ma ora la realtà si è evoluta. O, meglio, è stata riscritta. Perché oggi non importa più chi ti ha generato, ma come ti identifichi nel labirinto burocratico del linguaggio inclusivo. Genitore 1 e Genitore 2: una gerarchia numerica che apre scenari inquietanti. Chi sarà mai il Genitore 1? Una gara a chi arriva prima in ospedale? Un quiz a premi sulla genitorialità fluida?
Giorgia Meloni, che nel 2019 tuonava da piazza San Giovanni con la storica dichiarazione d’identità: «Io sono Giorgia, sono una madre, non genitore 1!», ora si trova smentita dalla Suprema Corte. E chissà se nel frattempo avrà aggiornato il suo slogan in «Io sono Giorgia, sono una funzione parentale primaria non binaria!»
La sentenza, va detto, si poggia su motivazioni tecniche: la dizione padre/madre escluderebbe le famiglie non tradizionali, violerebbe il principio di uguaglianza, creerebbe disagi ai bambini, e – udite udite – ostacolerebbe la raccolta dati secondo le normative europee. Perché se c’è una cosa che ci turba davvero, non è la denatalità, non è l’emigrazione giovanile, non è il caro-vita: è che un server dell’anagrafe possa essere stressato dalla parola “madre”.
Nel frattempo, la politica applaude o si indigna, a seconda della posizione sullo spettro ideologico. A sinistra si brinda alla conquista simbolica, come se avessero preso la Bastiglia del linguaggio. A destra si grida al complotto, con Salvini che probabilmente prepara un decreto per reinserire anche “nonno” e “nonna” nelle carte nautiche.
E noi cittadini, nel mezzo, ci ritroviamo con documenti più corretti ma meno chiari. Perché mentre il lessico si contorce, la realtà resta imperturbabile: ogni essere umano continua a nascere da un padre e da una madre. Anche se sulla carta questi diventano entità burocratiche numerate, come se fossero stampanti in rete.
Forse un giorno, nei musei del futuro, accanto ai dinosauri e ai telefoni a rotella, ci sarà una teca con un vecchio documento riportante “Padre: Mario – Madre: Lucia”. E i bambini delle scuole chiederanno: "Maestra, chi erano questi ‘padre’ e ‘madre’? Una specie estinta?"
E lei, imbarazzata, risponderà: "Erano figure mitologiche. Poi arrivò Genitore 1, e
la favola finì."
Fr.Ammenti
La decisione arriva nientemeno che dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 9216 ha archiviato il sogno nostalgico di Matteo Salvini, il quale – in un impeto di restaurazione lessicale degno del Congresso di Vienna – aveva riportato nel 2019 “padre” e “madre” nei documenti. Ricordate? Era l’epoca in cui si combattevano le élite globaliste con i moduli dell’anagrafe e i crocifissi negli asili. Tempi epici.
Ma ora la realtà si è evoluta. O, meglio, è stata riscritta. Perché oggi non importa più chi ti ha generato, ma come ti identifichi nel labirinto burocratico del linguaggio inclusivo. Genitore 1 e Genitore 2: una gerarchia numerica che apre scenari inquietanti. Chi sarà mai il Genitore 1? Una gara a chi arriva prima in ospedale? Un quiz a premi sulla genitorialità fluida?
Giorgia Meloni, che nel 2019 tuonava da piazza San Giovanni con la storica dichiarazione d’identità: «Io sono Giorgia, sono una madre, non genitore 1!», ora si trova smentita dalla Suprema Corte. E chissà se nel frattempo avrà aggiornato il suo slogan in «Io sono Giorgia, sono una funzione parentale primaria non binaria!»
La sentenza, va detto, si poggia su motivazioni tecniche: la dizione padre/madre escluderebbe le famiglie non tradizionali, violerebbe il principio di uguaglianza, creerebbe disagi ai bambini, e – udite udite – ostacolerebbe la raccolta dati secondo le normative europee. Perché se c’è una cosa che ci turba davvero, non è la denatalità, non è l’emigrazione giovanile, non è il caro-vita: è che un server dell’anagrafe possa essere stressato dalla parola “madre”.
Nel frattempo, la politica applaude o si indigna, a seconda della posizione sullo spettro ideologico. A sinistra si brinda alla conquista simbolica, come se avessero preso la Bastiglia del linguaggio. A destra si grida al complotto, con Salvini che probabilmente prepara un decreto per reinserire anche “nonno” e “nonna” nelle carte nautiche.
E noi cittadini, nel mezzo, ci ritroviamo con documenti più corretti ma meno chiari. Perché mentre il lessico si contorce, la realtà resta imperturbabile: ogni essere umano continua a nascere da un padre e da una madre. Anche se sulla carta questi diventano entità burocratiche numerate, come se fossero stampanti in rete.
Forse un giorno, nei musei del futuro, accanto ai dinosauri e ai telefoni a rotella, ci sarà una teca con un vecchio documento riportante “Padre: Mario – Madre: Lucia”. E i bambini delle scuole chiederanno: "Maestra, chi erano questi ‘padre’ e ‘madre’? Una specie estinta?"
E lei, imbarazzata, risponderà: "Erano figure mitologiche. Poi arrivò Genitore 1, e
la favola finì."
Fr.Ammenti
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