Aforismi pontifici tra ironia disarmante e sottile iconoclastia

Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, argentino, gesuita, tifoso del San Lorenzo e con la faccia da zio che ti sgrida ma poi ti offre il mate, è stato senza dubbio uno dei più imprevedibili e disarmanti protagonisti della recente storia della Chiesa cattolica. Non tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che ha detto, e soprattutto come l’ha detto. Niente latino da messa in tridentino, niente bolle papali sigillate in ceralacca, ma un argentino con l'accento da Boca Juniors che, tra una metafora e una stoccata, ti infilava una riflessione teologica come se fosse una battuta da bar.
Prendiamo il famoso “Chi sono io per giudicare?”. Ecco, detto da un Papa, è come se il direttore dell’Agenzia delle Entrate dicesse: “Chi sono io per controllare?”. Una frase che ha fatto tremare i palazzi vaticani più delle invasioni barbariche. Perché non era solo un’apertura verso l’omosessualità, ma un modo elegante, troppo elegante per certi prelati, di dire: “Amici miei, forse abbiamo sbagliato tono. O se non altro, ci siamo un attimo impuntati sulla condanna eterna.”
Poi c'è il capolavoro zoologico: “I cattolici non devono fare figli come conigli”. Ora, chiunque altro sarebbe stato crocifisso in sala mensa per una frase del genere. Lui no. Lui ha riformulato secoli di morale sessuale con un'immagine da cartone animato. Ma dietro il coniglio c’era il messaggio: basta con il culto del martirio procreativo, meglio due figli cresciuti bene che otto cresciuti dai nonni.
E quando ha detto che “il diavolo entra per il portafoglio”? Un colpo basso, o altissimo a seconda della prospettiva, a chi ancora crede che i soldi siano la benedizione del Signore. In realtà, spiegava Francesco, sono più spesso la porta d’ingresso di Belzebù, magari in doppio petto e col conto in Svizzera.
Indimenticabile anche il suo affondo alle suore: “Non devono essere zitelle acide”. Che, tradotto, suona più o meno: “Ok la vocazione, ma un sorriso ogni tanto non ha mai fatto male a nessuno.” Il problema? Che detta da un Papa maschio e argentino, la frase è sembrata uscita da un episodio di Don Matteo. Ma l’intento c’era: scuotere la polvere dalle abitudini, far entrare un po’ di aria fresca nei conventi, e magari anche un ventilatore.
E infine, il colpo di grazia alla cristianità da battesimo e comunione a pacchetto: “Meglio essere atei che cattolici ipocriti.” Non era una bestemmia, era un consiglio. Del tipo: se proprio devi fare finta, lascia perdere. Un invito all’onestà intellettuale, più raro di un miracolo documentato.
In fondo, Papa Francesco è stato un rivoluzionario anomalo, non ha rovesciato tavoli, ha cambiato le tovaglie. Non ha riscritto il Vangelo, ha semplicemente letto le note a piè di pagina. Ma lo ha fatto con uno stile tutto suo, un misto di parroco di campagna, nonno saggio e comico da stand-up mistica. E con quella risata, a volte bonaria, a volte corrosiva, ha lasciato un segno indelebile, non tra le pieghe dei dogmi, ma tra le righe delle coscienze.

Fr.Ammenti

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