Il nome della... cosa?
Umberto Eco, in un atto di ironia raffinata (ma mai privo di un certo cinismo), ha definito Il nome della rosa come "il suo peggiore libro", un’affermazione che non si può fare a meno di interpretare come un paradosso perfetto per chi, in fondo, è sempre stato il maestro della semiotica. È come se Eco, lo scrittore, avesse voluto prendersi gioco non solo del proprio pubblico, ma anche della critica che gli attribuiva il titolo di "grande autore di gialli storici", una sorta di "Nome della cosa" che non poteva essere più distante dalla sua vera essenza intellettuale. Ma è qui che si annida la sorpresa: mentre la massa si accalcava entusiasta in libreria per leggere il romanzo più venduto degli anni ’80, Eco stesso si trovava a malincuore a dover ammettere che quella creatura letteraria non solo non lo rappresentava, ma anzi, rischiava di sviare per sempre la percezione di sé come intellettuale, semiotico, filosofo.
Un romanzo che mescola il giallo con il medievalismo e la filosofia: una ricetta che, nella mente di Eco, aveva l’intento di giocare con la cultura popolare, ma che inevitabilmente lo ha marchiato come il padre di una tradizione che a lui andava stretta. Lo scrittore, infatti, aveva scritto Il nome della rosa quasi per gioco, come una specie di esperimento narrativo che, pur affondando nelle sue conoscenze più profonde di semiotica e teologia, doveva restare un divertissement. Eppure, il gioco gli è sfuggito di mano. Da un lato, la critica l’ha esaltato, dall’altro, Eco ha dovuto fare i conti con l’ironia della fama: quel romanzo che lui stesso descriveva come il suo "peggiore" era proprio quello che l’aveva consacrato a livello internazionale.
Se ci si avvicina con un po' di ironia a questo paradosso, si potrebbe dire che Il nome della rosa è diventato un "Nome della cosa" piuttosto che un nome del pensiero, una sorta di etichetta da appiccicare su Eco, relegandolo a quel tipo di scrittore che sa "intrattenere" piuttosto che "far riflettere". Ed è qui che risiede il cinismo più affilato: mentre il pubblico si perdeva nei misteri del monastero, Eco vedeva la propria intelligenza ridotta a un enigma da risolvere in un thriller medievale. Il grande semiologo, il filosofo dell’interpretazione, il pensatore per eccellenza, si ritrovava imprigionato nell'immagine di "autore di bestseller", un'ironia della sorte che a malapena poteva tollerare.
Ecco, quindi, che Il nome della rosa, con la sua facciata da giallo storico ben confezionato, diventa l’opera che lo ha reso famoso e, paradossalmente, lo ha imprigionato in una definizione che non aveva nulla a che vedere con la sua vera vocazione intellettuale. La semiotica della fama funziona in modo curioso: più una cosa viene ripetuta, più diventa segno di qualcosa che non è, un simbolo di un’altra cosa. Eco, d’altronde, non lo avrebbe mai ammesso apertamente, ma quella popolarità che tanto aveva sperato di non ottenere, ora lo aveva costretto in un angolo da cui non c’era via di uscita
Eppure, l’ironia e il cinismo sono la chiave. Eco aveva capito tutto prima degli altri: Il nome della rosa era il trionfo della cultura popolare sulla cultura alta, del romanzo commerciale sull'opera filosofica. Un grande successo che, per un gioco del destino, lo ha reso simbolo di ciò che lui stesso disprezzava, un esempio lampante della semiotica del mercato, che prende il pensiero profondo e lo riduce a "prodotto". Così, con il consueto sorriso ironico, Eco avrebbe potuto concludere che Il nome della rosa non fosse che un nome, appunto, di una cosa, senza contenuto autentico, ma piuttosto una merce ben confezionata.
Fr.Ammenti
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