La fatica del pensiero

Fuori dalle nostre case il mondo continua a bruciare.
Una combustione lenta, quasi impercettibile, fatta più di logoramento che di deflagrazione. Intanto, convinti che basti il sarcasmo per opporsi al collasso. 
Comprendere, d’altronde, è un’impresa faticosa: richiede tempo, dubbio, silenzio. 
Offendere, invece, è un esercizio gratuito, immediato, rassicurante. Fa sentire nel giusto, senza mai esporsi al rischio di essere in torto.
Eppure, di fronte alla rinnovata ascesa di Donald Trump, ciò che manca non è tanto la condanna quanto una domanda più onesta: perché accade? Perché milioni di cittadini, molti dei quali avevano già creduto in Biden, persino in Obama, oggi scelgono di tornare sotto la bandiera di colui che viene descritto come una minaccia alla democrazia stessa?
Trump non è un accidente della storia, né un virus da debellare con l’indignazione. È piuttosto un sintomo, ingombrante, di una crisi più profonda: culturale, sociale, persino spirituale. La politica tradizionale ha smesso di ascoltare, i partiti si sono ridotti a strumenti di gestione, l’intellettualità ha preferito il monologo all’ascolto. E così, nello spazio lasciato vuoto, si è inserita una figura capace di nominare il disagio con parole grezze ma riconoscibili.
L’economia americana è un corpo segnato: diseguaglianze estreme, globalizzazione cannibale, ceto medio dissolto come un’illusione ottica, classi operaie sfinite e dipendenti, non solo metaforicamente, da sostanze che anestetizzano il fallimento.
Di fronte a questo, la risposta trumpiana è elementare, brutale, ma coerente: dazi, muri, slogan. Una politica ridotta a gesto, a reazione viscerale. Se funzioni o meno, resta da vedere. Ma che parli a milioni di persone, è innegabile. Perché semplificare, anche male, è spesso più efficace che spiegare bene.
Sul fronte internazionale, la guerra in Ucraina mostra il volto di una tragedia che si fatica a raccontare con onestà. Si preferisce il sostegno retorico alla diplomazia silenziosa, l’illusione del “resisteremo” alla necessità del “negozieremo”. Il realismo, quello autentico, ha perso cittadinanza nel dibattito. Kissinger, con tutte le sue ombre, sapeva che la pace si costruisce nel buio delle trattative, non sotto le luci dei riflettori.
E l’immigrazione, altro terreno infuocato, viene trattata come se fosse un problema estetico, da tenere fuori dallo sguardo del cittadino-spettatore. Ma anche qui, le risposte sono teatrali: muri evocati come totem identitari, proclami svaniti in un paio di clic. 
Trump ha il dono inquietante di nominare ciò che molti non vogliono vedere. Ma lo fa con la delicatezza di un martello. E mentre lui agisce, l’establishment si rifugia nella superiorità morale, convinto che basti ridicolizzare per vincere. È un errore di prospettiva:

"non si batte ciò che non si è prima compreso".

Forse è tempo di tornare alla fatica del pensiero, al dubbio come metodo, alla complessità come linguaggio. Perché mentre inseguiamo l’applauso facile, il mondo, fuori dalle nostre case, non smette di bruciare. E non sempre ci sarà qualcuno pronto a spegnerlo.

Fr.Ammenti

Commenti

Post popolari in questo blog

II mondo ambidestro

Chi ha letto Pinocchio?

Genitore 1 batte Padre e Madre 3 a 0: cronaca di una disfatta semantica