La pistola sul tavolo: il potere secondo Trump

L’atmosfera è tesa, carica di nervosismo e paura. E non è difficile capirne il motivo: miliardi sono stati polverizzati nel giro di poche ore. La domanda è legittima: perché l’amministrazione americana ha deciso un’accelerazione così violenta sui dazi, seguita da una ritirata altrettanto rapida? Due le interpretazioni possibili, entrambe plausibili. Da un lato, la pressione incrociata della finanza internazionale, che Trump ha spesso dichiarato di avere contro, e dei grandi gruppi tecnologici, che invece si sono allineati al suo fianco. Un patto implicito tra poteri opposti, un avvertimento chiaro: continuare su quella strada avrebbe condotto allo schianto.
Dall’altro lato, l’ipotesi che Trump non abbia ascoltato nessuno, ma si sia semplicemente accorto dell’opportunità politica e personale offerta dal caos. Ha osservato la lunga fila fuori dalla porta della Casa Bianca: leader e emissari pronti a offrirgli qualsiasi cosa pur di evitare lo scontro. E ha scelto di trattare con la minaccia costante sul tavolo, senza abbassare del tutto la pistola, ma neppure premendo il grilletto. Tenere tutto in sospeso per spostare l’equilibrio delle trattative a proprio favore. Le due versioni non si escludono. Possono coesistere. Ed è anche probabile che entrambe siano vere.
Resta il dato di fatto: i mercati hanno bruciato migliaia di miliardi. O, per meglio dire, si è bruciata una parte della fiducia collettiva che sostiene un sistema finanziario scollegato da qualsiasi forma di economia reale. Si parla di perdite come se si trattasse di beni materiali, quando in realtà si tratta di valutazioni istantanee, numeri in movimento. Oggi si perdono, domani si recuperano. Nessuno stampa o distrugge ricchezza reale: si registra solo un cambiamento di aspettative. Il crollo e il rimbalzo sono due facce della stessa illusione.
Nel mezzo di tutto questo, Trump parla in pubblico con il linguaggio tipico del suo stile: diretto, volgare, deliberatamente umiliante. Racconta di capi di Stato che lo supplicano, che lo implorano. Non è solo una questione di forma: è una dichiarazione di potere. È il modo in cui intende esercitare la sua autorità. Un linguaggio che, al di là delle differenze culturali, non dovrebbe mai appartenere a un capo di Stato. Ma che, nel suo caso, è diventato uno strumento sistematico di dominio.
Poi c’è il sospetto, ben più grave, sollevato da alcuni democratici americani: che dietro quella ritirata tattica si nasconda una manovra di insider trading. Trump annuncia al mondo che è il momento perfetto per comprare, poi organizza un incontro riservato con i grandi finanziatori nella sala ovale. Non serve un’indagine per capire che si è oltrepassato il limite tra politica economica e interesse personale.
Ma ciò che definisce davvero questa fase politica non è l’episodio in sé, bensì il quadro generale. Trump governa circondato dai massimi esponenti del capitalismo digitale. Cinque o sei uomini e donne che possiedono le infrastrutture informative, tecnologiche e finanziarie del mondo occidentale. Alcuni di loro lo hanno sostenuto dall’inizio, altri si sono adeguati rapidamente per convenienza. Il risultato è un’alleanza organica tra potere politico e interessi economici concentrati. Una struttura di potere che non riconosce limiti né regole, e che ha un solo obiettivo: massimizzare il profitto, ovunque e comunque. I dazi, le crisi, le instabilità non sono incidenti: sono strumenti. E servono a rimuovere qualsiasi ostacolo alla piena espansione di un capitalismo senza freni.
Alla fine, più che un presidente, sembra il portavoce ben pagato di chi il potere ce l’ha davvero... e non ha certo bisogno di presentarsi alle elezioni per esercitarlo.

Fr.Ammenti



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